di Cristina Zanghellini

Non serve essere supereroi per cambiare il mondo. A volte basta semplicemente avere sensibilità e tutto viene da sé. Lo sa bene Antonio Schifano, finanziere per lavoro e allenatore di calcio per hobby, che da sette anni a questa parte ha dato un nuovo significato alla parola felicità.

La sua storia è comune a molti appassionati: fin da bambino gioca a calcio, poi tra università e lavoro, a malincuore appende le scarpette al chiodo. Quando l’età non gli consente più di stare in campo, la passione mai sopita lo porta a mettersi in gioco nuovamente: consegue il patentino di allenatore delle giovanili ed inizia a dedicarsi ai pulcini, i bambini tra gli 8 e i 10 anni.

Un giorno, proprio durante una partita dei suoi piccoli, Antonio nota a bordo campo un bambino disabile. Ha più o meno l’età dei suoi giocatori che sgambettano in campo e segue la partita con grande entusiasmo e poca compostezza: ad ogni azione si agita e si dimena, sembra quasi voler saltare giù dalla sedia a rotelle su cui è costretto.

Com’è nata LA PARTITA DELL’AMICIZIA

Antonio è rapito da quell’immagine: non riesce a concentrarsi. Anche nei giorni seguenti, quando è a casa e guarda giocare i suoi due figli “normodotati”, il pensiero è inchiodato a quel bambino speciale a bordo campo. Pensa e ripensa a quel ragazzino, alla sua sofferenza, al senso di impotenza che deve provare e a come si possono sentire ai suoi genitori.… E si ripete come un mantra: “Devo fare qualcosa. Anche qualcosa di piccolo, ma devo farlo.”

Tutto d’un tratto ha un’illuminazione. Accende il computer e digita nella barra di ricerca finché la trova: in Trentino esiste una squadra di calcio “non convenzionale”. É l’Associazione CALCIO INSIEME TRENTO, che accoglie persone dai 18 ai 50 anni con disabilità intellettive. Schifano contatta il Presidente, Franco Comai, e si mette a disposizione per seguire i ragazzi. La squadra ha già un allenatore, il mister Ivano Osele, ma Comai propone a Schifano di alternarsi a lui negli allenamenti e di mettersi a disposizione per le trasferte. Spesso, infatti, è necessario accompagnare il team fuori provincia, perché in Trentino non ci sono altre squadre o tornei per ragazzi diversamente abili.

Antonio accetta e spesso si ritrova ad osservare le due squadre che allena e a riflettere. I pulcini vivono le partite come i calciatori “grandi”, quelli che si vedono in TV: giocano per vincere. Per i diversamente abili, invece, non è così. A loro non importa se vincono o perdono, se i compagni e gli avversari sono bianchi, neri o gialli; se sono “normali” o “disabili. Per loro, entrare in campo è già una vittoria, rincorrere una palla è un’emozione incredibile ed appagante. Per non parlare di quando segnano un goal.

“E allora” – pensa Antonio – “perché non far giocare assieme, in squadre miste, i pulcini e ragazzi diversamente abili? Magari anche i piccoli potrebbero imparare a stare in campo con più leggerezza… ” Nasce così la “Partita dell’Amicizia”: ormai giunta alla quarta edizione, è diventata un appuntamento fisso ogni dicembre, al Palazzetto dello sport di Lavis. La complicità che si crea in campo e l’energia che si sprigiona fra giocatori e pubblico sono dirompenti e negli anni continuano a crescere le associazioni e gli sponsor che sostengono il progetto.

L’incontro con Aron

Durante i preparativi dell’ultima Partita dell’Amicizia, accade un altro incontro magico. Si avvicina ad Antonio una mamma che con fare sconsolato, gli rivela che il figlio di 9 anni, ipovedente, sogna di giocare a calcio, ma – proprio a causa della sua disabilità – non ha mai potuto farlo. Schifano guarda il piccolo accanto a lei. Aron è bellissimo, ha lo sguardo vispo e allegro e un bel paio di occhiali colorati e lui può aiutarlo. Da quel momento, il coach si adopera per realizzare il sogno di Aron: coinvolge l’Associazione sportiva presso cui è tesserato e trova subito la piena disponibilità dei dirigenti.

Antonio sa che non sarà semplice, né veloce inserire un bambino con una disabilità in mezzo a una squadra tradizionale, ma vuole comunque provarci. L’idea è intanto di far stare Aaron in campo con il gruppo dei “piccoli calciatori”: tenerlo in disparte e dargli le prime indicazioni per calciare la palla, per poi provare a farlo interagire con gli altri bambini.

Già dalla prima volta negli spogliatoi, mentre Antonio aiuta il piccolo ad indossare pantaloncini e scarpette, percepisce in lui una gioia ed un’emozione incontenibili. Quando finalmente entra in campo, Aron è entusiasta: inizia a correre con gli altri bambini. A supportarlo, due bravissime allenatrici, Elena e Michela. “E qui sfatiamo un altro tabù:” – sorride Antonio – “le donne nel calcio possono essere anche più competenti dei colleghi maschi”.

Dopo le prime corse, tutti i bambini si fermano e Aron si presenta. Lo fa da solo e in modo commovente: “Ciao, mi chiamo Aron, voglio giocare a calcio ma ho un problema: ci vedo poco”. Non serve altro: tutti gli altri lo accolgono e lo aiutano a realizzare il suo sogno. “Perché i bambini sanno come ci si diverte, tutti assieme senza distinzioni….il problema è che diventando adulti, peggioriamo!” – sorride amaro Antonio.

Oggi, noi vediamo un bambino felice che gioca a calcio, ma dietro c’è un mondo: ci sono persone che mettono tempo, impegno, volontà e passione. E quando chiediamo ad Antonio cosa servirebbe ancora, risponde con tanti se: “Se più allenatori/istruttori dedicassero qualche ora al mese ai più fragili; se le società sportive accogliessero ragazzi con disabilità senza pensare ai livelli di competitività della squadra; se le istituzioni dedicassero più mezzi economici per realizzare i piccoli grandi sogni come quello di Aron, snellendo la burocrazia…. magari alla fine tutti assieme diventeremmo una società migliore.”